5 – Dell’assenza

Quest’ultimo intervento vuole introdurre quei pittori contemporanei che all’umano esistere odierno hanno cercato di dare rappresentazione, mettendone in luce quella negazione dell’identità data dalla situazione socio-culturale, socio-economica e socio-mediatica. Dove l’eccesso informativo, anziché dar voce, ha ammutolito e annichilito le intelligenze, le umanità e le istanze  collettive, inghiottite nel frastuono assordante della valanga d’immagini, parole e comunicazioni, determinando al fine una paradossale assenza provocata dall’eccesso di presenza. I soggetti e l’esecuzione tecnico-pittorica, in questi pittori, palesano con determinazione quest’assenza drammatica. Quest’area – non programmata, non decisa aprioristicamente, ma data da un sentire generazionale diffuso senza previa teorizzazione – non può che esser letta in direzione sociale. Totalmente discosta da autoreferenzialità sul linguaggio artistico, dunque non mero gioco o esercizio di stile, ma viva e carnale esigenza di denuncia e diniego di questo stato sociale ed esistenziale. Tanto più vera perché diffusa e spontanea, seppure anch’essa rischi di ricadere nel tritacarne della spettacolarizzazione dei social-media che tutto macinano in una disumanizzante banalizzazione, tramutando esigenze concrete e reali in frammenti d’intrattenimento.

Questo mio percorso è un pallido tentativo di sottrarre questo fenomeno umano e artistico dall’oblio della bruciante velocità mediatica. Fenomeno costituito di vite e ricerche di pittori differenti per formazione e geografie e del quale cerco di rendere memoria.

Nell’ultimo intervento (https://www.danilosantinelli.it/danilos-blog/4-del-minoritario-sentire/) avevo cercato di tracciare un percorso delle precedenze storico-artistiche che hanno determinato l’intensificarsi di questo fenomeno a partire dalla metà degli anni novanta del Novecento, giungendo sino al termine degli anni quaranta di quello stesso secolo. La generazione dei nati tra gli anni sessanta e settanta è quella che ha incarnato questo sentire, ma tra di essi vanno elencati alcuni artisti nati negli anni cinquanta che per prossimità ho voluto includere in questo più recente fenomeno.

Specifico sin d’ora che l’elenco di autori, che mi accingo a stilare, non è da ritenersi completo, in esso compaiono quei pittori dei quali sono riuscito a reperire notizia, dato che trattandosi di fenomeno ancora in atto e in trasformazione gli artisti che lo compongono sono numericamente superiori rispetto a quelli che riporterò. Alcuni sono conosciuti e hanno incontrato i favori del mercato, altri sconosciuti sia all’ampio pubblico sia allo stesso mercato. Alle eventuali mancanze cercherò di sopperire con futuri interventi.

Preciso come tale fenomeno, pur essendo recente, stia già conoscendo mutazioni in direzione commerciale, ossia ne è già iniziata una normalizzazione che lo spoglia rapidamente delle istanze originarie ed iniziali.

Dico, infine, che riguardo l’inclusione di alcuni artisti mi sono interrogato lungamente, ma alcuni di essi, pur presentando similitudini estetiche, sembrano dirigersi maggiormente in una direzione di riflessione sull’arte anziché sulla società e dunque verso quel processo di astrazione già decritto (https://www.danilosantinelli.it/danilos-blog/2-il-processo-di-astrazione-nelleta-contemporanea/).

La ricerca di Igor Kamyanov (1954) è segnata da evanescenze e assenze ottenute tramite impasti cromatici delicatissimi e contenuti, che donano ai dipinti un aspetto quasi monocromatico e sfocato, come a esprimere una difficoltà nella rappresentazione dei soggetti paesaggistici che divengono sfuggenti, o come se, anziché l’oggetto fisico, ne sia rappresentata la memoria, facendocene avvertire la caducità. Nei dipinti di figura, prevalentemente nudi, questa delicatezza e caducità cromatica si somma a un segno frettoloso tipico dello studio, moltiplicando la sensazione d’impossibilità di fermare il soggetto, del quale non rimangono che pallidi elementi a manifestarne l’assenza d’identità. Quei nudi non sono dunque quelle date persone, sono invece chiunque di noi li stia osservando, a noi si rivolgono, di noi stanno trattando.

Bernard de Wolff (1955) è stato allievo di Eugène Leroy – del quale ho trattato nel precedente intervento ­– dalla cui pittura è stato profondamente segnato, i suoi impasti pittorici ne portano un’evidente traccia. Anche de Wolf si muove tra soggetti paesaggistici e di figura, prediligendo anch’egli il nudo. Seppure nella sua pittura tutto tenda a scomparire nel magma materico-cromatico, non presenta i toni drammatici di altri autori di questa medesima area, e certamente il suo impasto non si rivela altrettanto crudele di quello di Leroy. Aspetto dovuto alla ricchezza della sua tavolozza che dona ai suoi dipinti, in particolare ai paesaggi naturali, un aspetto quasi impressionista. Nelle opere di figura sembra spinger più in una direzione di crudezza, dove il magma materico fa deflagrare le figure deprivandole, anche in questo caso, di un’identità fisiognomica.

La pittura del neozelandese Euan Macleod (1956) è di una brutalità d’impronta espressionista che lo vede accanirsi particolarmente sulle figure sottoposte a eventi quasi epici. L’acqua è un tema ricorrente, gli uomini la solcano a bordo di piccole e fragili imbarcazioni a remi, in balia degli elementi, prossimi alla sconfitta. Continuamente a confronto con forze a loro superiori che li rendono inermi, sono quelle forze che li consumano, li decompongono facendogli spesso assumere delle posture piegate, come spossati dallo sforzo o in procinto di cedere e cadere.

Anche in Donald Teskey (1956) l’acqua riveste particolare rilievo nelle sue vedute marine nelle quali le onde continuamente si frangono contro il paesaggio, erodendolo, consumandolo con l’aggressiva materia impiegata dall’artista americano. Una materia che predilige cromie scure e fredde a incarnare la glacialità di una condizione vivente. I suoi paesaggi divengono una metafora dello spirito dei tempi, cessando di essere mere presenze marine o rurali.

I paesaggi urbani di Alessandro Papetti (1958) sono sempre visti in corsa, come attraversati ad alta velocità. Un aspetto che assegna loro fragilità ed evanescenza. Queste vedute stradali divengono metafora di una frenesia più vasta, che riguarda l’uomo, le sue tecnologie, la sua storia, la sua caducità. Tutto sembra perdersi e svanire. I suoi dipinti di figura appaiono invece molto più fermi, bloccati da un sopravvento della forma che fatica a perdere una struttura accademica.

Catherine Woskow (1958) si concentra sulla figura e in particolare sui volti, che vengono liquefatti da una materia pittorica gocciolante, a sottolinearne ancora una volta la scomparsa dell’identità, che anche per lei non è individuale ma collettiva. Più recentemente la pittrice ha intrapreso un percorso che torna alle posizioni di un informale di matrice spaziale.

Negli anni novanta Vladimir Migachev (1959), a seguito di precedenti esperienze pittoriche, approda a una pittura di paesaggio che diviene termometro della condizione storica che stiamo attraversando. Anche in Migachev il potente impasto pittorico è solcato da sgocciolature che lo drammatizzano, caratterizzato da una cromaticità plumbea ricca di bruni, ad espressione di desolazione e decadenza. Metafora appunto di uno spirito che pervade il mondo ai nostri giorni.

Quella di Fabien Claude (1960) è una pittura di tenebra, dove crani o busti si stagliano su fondali neri come emersioni fantasmatiche di morte. I volti sono ridotti a teschi e i busti, quando compaiono, sono informi e liquefatti, sono intuibili ma non concretamente presenti. L’aggressiva materia deforma i pallidi volti-teschi sciogliendo anch’essi. Le figure crocifisse sono un tema ricorrente, sovrastate da cieli tempestosi appena accennati, tutto diviene momentanea presenza di una materia martoriata che ha più il carattere della tragedia umana anziché religiosa.

Solo una parte delle opere di Fulvio Leoncini (1960) è riconducibile all’area di nostro interesse. Il pittore toscano si muove su linee produttive differenti, pur avendo un minimo comun denominatore nella materia sofferta da lui impiegata e certamente erede di esperienze informali, ricca di segni che graffiano le superfici aggredendole. Quando affronta la figura umana viene anch’essa sfregiata, intervenendo anche su materiali fotografici, trasposti sulla superfice pittorica, che poi nega con interventi brutali, mutandoli in corpi e volti feriti, decomposti e ammuffiti da agenti corrosivi.

Christophe Hohler (1961) dipinge corpi con movimenti materici frenetici e violenti. Le figure sono poste di fronte a noi, si mostrano senza pudori o vergogne, a volte erette, in altri casi reclinate sotto il peso delle sofferenze, spesso urlanti, paiono contrapporsi a forze che non sono mostrate. La materia pittorica palesa questa lotta tramite i segni che compaiono sui corpi, come ferite riportate in questo incessante scontro con la vita e l’esistente. Le sue figure tentano disperatamente di riacquisire una presenza e un’identità, ribellandosi strenuamente alle forze che vogliono negarle.

Nella pittura di Henry Jackson (1961) le figure sono costituite da un insieme di macchie cromatiche, tendendo a confondersi con le altre disseminate sulla superficie pittorica. La difficoltà d’identificazione è amplificata dalla presenza di segni violenti e schizofrenici di graffite o materie a cera, che anziché disegnarle tendono invece a cancellarle. La ricchezza cromatica della tavolozza esalta ulteriormente l’aspetto violento dei suoi dipinti che aggrediscono l’osservatore disorientandolo.

La pittura di Ibrahim Brimo (1962) è spessa e scura, ricca di neri con macchie chiare, bianche o colorate, che improvvisamente esplodono sulla superficie dando forma a figure rozze e sgrammaticate, rese drammatiche da una materia sporca e inquinata stesa sulla superficie in maniera disomogenea, anch’essa apparentemente scorretta, ma in realtà coerente nella narrazione pittorica dell’umano dramma. In altri casi vi è invece l’impiego del solo bianco che fa emergere, dai neri del fondo, visi con parvenze fisiognomiche più “realistiche”,  ma le cui orbite oculari e le bocche sono date dagli stessi scuri del fondo, cosicché quel buio le compenetra rendendole spettrali.

Daniel Bodner (1963) è noto soprattutto per le sue vedute cittadine attraversate da passanti anonimi, privi di volti e mostrati sempre ad una certa distanza, spesso dall’alto. Persone che tra loro non comunicano, improvvisamente illuminate da squarci di luce o che, al contrario, ne rimangono escluse. L’anonimato e l’assenza di dialogo evidenziano una solitudine estesa e rassegnata.

I soggetti della pittura di Alex Kanevsky (1963) sono figure e ambienti realistici decomposti e negati, resi con un largo impiego di tonalità fredde, dove di tanto in tanto esplodono rossi, verdi o azzurri violenti che mettono in risalto i glaciali rosa dei nudi. I corpi e gli ambienti sono frammentati da campiture discontinue di colore che danno forma a luoghi in macerie, rappresentazioni e metafore di una realtà in rovina. Le figure sono spesso in movimento, donne che si lavano o bagnanti, temi tradizionali dell’arte, ma colti in una temporalità fugace. Per rappresentazione e soggetto quella di Kanevsky si costituisce certamente come una pittura di taglio accademico che ha incontrato maggiormente i favori del mercato.

Andy Denzler (1965) dipinge opere d’impianto realistico che poi rende evanescenti per mezzo di loro cancellazioni parziali. Sulla tela compaiono striature orizzontali sfocate che si alternano ad altre a fuoco, dando l’impressione di una mancata sintonia televisiva e più in generale visiva. Questa mancata messa a fuoco, o parziale cancellazione, diviene così metafora delle assenze generate da questo periodo storico, seppure la sua pittura si presenti troppo ripetitiva, più rivolta alla facile formula che necessita al mercato che a esigenze vitali e di ricerca.

Søren Tougaard (1965) dipinge paesaggi carichi di nebbie che ovattano rumori e temporalità, tutto rallenta, costringendoci a soffermarci e a scrutare le presenze che divengono sporadiche. L’osservatore è anch’esso costretto a una lentezza riflessiva, tutto gli appare distante e lontano, difficile da vedere e comprendere se non parzialmente. Tra noi e il paesaggio Tougaard pone un filtro nebbioso che sembra celarlo, allontanandoci da quella realtà e rendendola impalpabile e indistinguibile.

Lars Elling (1966) impiega una raffigurazione tradizionale su temi di memorie familiari, dove le identità dei personaggi sono celate o negate: da maschere, da sostituzioni, dall’assenza dei tratti fisiognomici o da veri e propri accanimenti materici sui volti. La quotidianità familiare acquista così aspetti stranianti e surreali da incubo, dipinti che divengono metafore di un infanzia difficile, costellata di accadimenti tragici.

I paesaggi di Theresa Handy (1966) sono abitati da presenze umane che la pittrice pone lontano dal nostro punto di osservazione. Le immagini sono inoltre percorse da tenui sgocciolature e macchie che procurano disturbo visivo e amplificano la sensazione di lontananza. Si è nuovamente indotti a una lentezza di visione, ma che nel suo caso ha il sapore del ricordo, non sappiamo se stiamo osservando alcuni ricordi reali della pittrice, o se essa intenda invece dirci che il mondo ha ormai assunto la sostanza dei ricordi. Il suo lavoro pittorico svolto su base fotografica digitale sembra maggiormente indurci nella seconda direzione.

Qui solo una parte della produzione di Tor-Arne Moen (1966) ci interessa ed è quella che va in direzione della negazione dell’identità. Le opere di questa serie riproducono immagini fotografiche d’epoca di gruppi familiari, di bambini o di ragazze. L’assenza messa in atto dal pittore norvegese sembra quindi andare maggiormente in una direzione storica,  dove quel passato, rappresentato realisticamente, è restituito solo in parte, poiché alcune zone del dipinto sono cancellate da rapide pennellate con andamenti orizzontali dinamici o sgocciolature di colore, con un particolare accanimento sui volti.

Lesley Oldaker (1966) dipinge vedute urbane affollate di persone rappresentate come silhouette nere, gocciolanti e prive dell’ultimo tratto degli arti inferiori, il loro andare diviene così incerto e vano. In quella moltitudine non s’innesca alcun tipo di comunicazione. Folla omogeneamente e scura che sa di massa anonima nel suo incedere unidirezionale, in alcuni casi delle figure sembrano dirigersi altrove o staccarsi dal gruppo principale. I suoi dipinti sono monocromi o giocati su due sole tonalità, dove ai gruppi di persone è assegnato sempre il nero, rendendoli ancora più angoscianti nella loro identica assenza identitaria. Riflesso di una società senza direzione, scopo, interazione o identità.

Le opere di Akihito Takuma (1966) sono continuamente percorse da striature verticali che rendono i paesaggi urbani o rurali, e le più rare figure, evanescenti e liquefatte, in un continuo equilibrio tra la figuratività e la sua scomparsa, ma anche tra la presenza e l’assenza dei soggetti, e, per inevitabile associazione, tra l’esistenza delle oggettualità reali che l’artista ritrae e la loro estinzione. Esistenze che in alcuni casi lasciano il posto a dipinti che si fanno astratti, dove l’artista giapponese sonda i limiti di questo confine e connubio.

I dipinti di Kenneth Blom (1967) presentano colori freddi e acidi che ritraggono figure umane in rapporto con ambienti interni o esterni. Le forme regolari e geometriche sovrastano la presenza delle fragili figure, aspetto che si fa ancora più evidente negli interni o nelle vedute cittadine con le forme ripetitive e modulari degli edifici e delle finestre. Gli ampi spazi cittadini, poi, sembrano inghiottire la presenza umana che diviene minuscola perdendosi nello spazio. In alcuni casi i personaggi sono ridotti a silhouette, in altri il loro aspetto è aggredito da una materia corrosiva, ma può anche capitare che vi sia compresenza di silhouette e figura corrosa e in quel caso la silhouette entra nel gioco della geometrizzazione contrapponendosi alle altre evanescenti e fragili figure.

La pittura di Cecily Brown (1969) è caotica, non sempre le figure emergono in maniera immediata dal groviglio dell’impasto pittorico caratterizzato da una cromaticità eccessiva, così da moltiplicare lo smarrimento dello spettatore e al contempo assegnando all’opera aspetti decorativi che ne hanno decretato il successo. La sessualità, tema ricorrente nelle opere della Brown, è celata dall’eccesso cromatico e materico che, al contempo, ne incarna la natura, ma che per pudore in società va negata.

Le assenze nella pittura di Edwige Fouvry (1970) sono rese evidenti dalle ampie zone vuote, sia nelle opere di figura sia in quelle di paesaggio. La sua pittura è filamentosa, ricca di segni e gesti pittorici sovrapposti, che lì, dove inizia la zona vuota del dipinto, si diradano come fibre scucite di un tessuto. Il suo lavoro pare quindi rivolto al tentativo di riannodare quei fili, come di ricordi dalla natura parziale dei quali si vuole ricostituire la memoria. Questa natura parziale riguarda anche le opere di figura, che spesso non sono chiare o addirittura assenti, i volti non sono completi, non totalmente ricordati, i suoi dipinti acquisiscono così una natura fatta d’incertezze dai toni inquietanti.

Alberto Zamboni (1971) trae spunto per le sue opere da suggestioni letterarie. Una pittura dunque immaginifica che apparentemente non ha appigli con la realtà, ma che invece l’aspetto materico e i soggetti rappresentati – vedute cittadine con figure che le attraversano – riconducono al reale che il pittore bolognese ci mostra evanescente e sottoposto a nebbie, dove i personaggi hanno una ridotta dimensione rispetto alla superficie pittorica. Anche qui si ha la sensazione di svanimento o rimembranza, tutto appare come lontano o che si stia sempre più allontanando.

La pittura di Tina Sgrò (1972) segue essenzialmente due linee produttive: vedute urbane di strade e periferie; interni di salotti con pesanti arredi retrò. Entrambi, in ogni caso, sono caratterizzate da una pittura dinamica, ricca di rapide pennellate che sembrano muovere la materia pittorica e i soggetti rappresentati. Le vedute urbane sono cariche di tinte fredde e sporche che ne amplificano squallore e desolazione, mentre gli interni sono prevalentemente dipinti con tinte calde, rendendo quei salotti accoglienti e intimi. Si ha l’impressione che da un lato vi sia un confronto dell’artista con un freddo mondo esterno e affatto rassicurante e, dall’altro, la sicurezza di ambienti dove ritirarsi nei propri ricordi. Un’ambivalenza che può anche essere letta in direzione di un mondo concreto fatto di gelide assenze e d’interni carichi di un passato che va scomparendo.

La pittura di Ronan Barrot (1973) è pesante e violenta, la sua materia densa e sporca da forma a figure e paesaggi rozzi di un espressionismo spinto e carico di malessere. I soggetti sono aggrediti e violentati, in un confronto fisico ed energico con il dipinto che rende le sue scene di lotta ancor più brutali e i suoi presagi di morte – con la presenza dei teschi – ancor più inquietanti. I teschi, le figure, le presenze naturali sembrano compresse e schiacciate sotto il peso di quella materia, che anziché dar loro forma sembra colpirli e percuoterli, sfigurati dai colpi di colore inferti dal pittore.

Ayman Halabi (1973) è siriano, aspetto dal quale non si può prescindere e dal quale, lui per primo, non può prescindere. Intende la pittura come un atto sociale, una lettura del proprio tempo. I suoi soggetti sono figure incompiute e corrose, dipinte con tonalità di grigi, neri e bruni a evidenziarne la decomposizione. Anche nei dipinti più recenti e colorati le tinte rimangono comunque sporche, anch’esse corrose o contaminate da sovrapposizioni segniche o cromatiche. L’identità diviene spettrale, ombra fantasmatica di un tempo fatto di eventi brutali e drammatici.

I soggetti di Kim Dorland (1974) sono espressione di un immaginario generazionale fatto di ragazzi in skateboard, partite a hockey, passeggiate nei boschi, ma sui quali grava un’esuberanza materica e cromatica dai toni psichedelici. In alcuni casi le allucinate presenze formali e cromatiche sembrano assumere aspetti quasi munchiani, in particolare nei dipinti dove compaiono lune o soli e riflessi acquatici, in questi casi le sinuosità materico-cromatiche presentano lo stesso grado di distorsione.

Qui ci riferiamo alla sola serie di dipinti dal titolo Waiting di Brett Amory (1975), nella quale il pittore ritrae scene quotidiane del suo quartiere, soprattutto vedute notturne di persone di fronte a negozi. Le luci fanno emergere le scatole architettoniche dal buio che le attornia rendendole simili ad apparizioni, ed anche le figure che vi stanziano di fronte acquistano una natura transitoria e fantasmatica. I piani dell’immaginato e del reale si confondono lasciando posto a improvvise apparizioni.

Tim Kent (1975) dipinge frammenti di strutture architettoniche che tendono a compenetrarsi con l’ambiente circostante, ma che spesso lo sovrastano con cromie violente e stridenti. I colori più dimessi degli ambienti vengono così dominati e quasi violentati da improvvise linee strutturali di colori psichedelici negli esterni, mentre negli interni improvvise esplosioni cromatiche sembrano cancellare l’ambiente e i personaggi che li abitano, confondendo i piani visivi in un continuo contrasto tra materia e forme rigide, tra razionale e irrazionale, tra naturale e innaturale. Una realtà fatta di compresenze caotiche, corrose dall’impasto pittorico, che sembra alludere alla stordente molteplicità dei piani umani e sociali in bilico tra reale e virtuale.

Le tele di Antony Micallef (1975) ritraggono volti sfigurati da un pesante impasto materico, rivelando l’intenzione di un’indagine sull’identità che non si ferma all’individualità rimandando invece al sociale, a una condizione umana e storica.

Anche George Androutsos (1976) si dedica alla ritrattistica, ma i suoi sono disegni tracciati con segno rapido e schizofrenico ai quali apporta potenti cancellature che devastano la fisionomia dei soggetti. Identità negate che divengono metafore di una collettività sociale e storica che l’artista greco si sforza di denunciare.

Per caratteri pittorici anche l’ormai affermata star del mercato Adrian Ghenie (1977) appartiene a quest’area. Nei suoi dipinti compare una materia disfatta e pesante che mutila ambienti e figure, dove tutto diviene violento e gridato con rabbia. Ghenie ritrae spesso personaggi storici e in quel caso l’atto pittorico diviene strumento di giudizio.

Quello di Daniel Pitin (1977) è un mondo costituito da quinte teatrali o cinematografiche, di realtà che celano altre realtà e dove le identità nascoste non sono solo quelle dei personaggi, ma riguardano l’intero universo da lui rappresentato. Anche nella sua pittura si avverte potente la decadenza di un’epoca fattasi illeggibile, non codificabile se non in frammenti. La sua è una pittura tradizionale e realistica, con la quale vuole svelare i segreti delle oscure vicende che dipinge e dove il mondo stesso appare come un’oscura vicenda schiacciato dal peso dei suoi intrighi.

Maya Bloch (1978) dipinge molte scene di gruppo, persone attorno a un tavolo che stanno cenando o bevendo, scene apparentemente conviviali. Nel suo caso i personaggi non mancano dei tratti fisiognomici che sono invece distorti e mutati, assumendo una parvenza avariata che emana odore di muffa. Sembra di osservare delle maschere sociali in disfacimento, le quali guardandoci ci annoverano al gruppo. Raramente conversano o si guardano tra loro, sempre invece ci osservano, chiamandoci all’interno di quella finzione sociale fatta di posticce maschere in decomposizione.

Alexander Kabin (1978) rappresenta luoghi periferici, vedute ferroviarie o cittadine rese con una pittura sgranata e ricca di sgocciolature, dominata da tonalità chiare e fredde, dove i bianche evocano un silenzio assoluto e una lentezza estenuante fatta di desolazioni glaciali. Quando dipinge poltrone o divani anch’essi sono vuoti e abbandonati, mentre nelle rappresentazioni di scene di guerra la materia pare ancor più sgranata e disfatta, nel caso dei dipinti con figure, infine, queste tendono a compenetrarsi col circostante rendendosi visibili a frammenti o per trasparenze.

Helen Shulkin (1978) è invece interessata al posturbano, alle mutazioni degli spazi cittadini in rapporto alle nuove strutture architettoniche. I suoi dipinti sono dominati da vuoti – dove improvvisamente esplodono linee strutturali di aeroporti, stazioni, cantieri industriali – e da variazioni di blu glaciali che moltiplicano le freddezze dell’acciaio e del vetro delle strutture. Nel caso dei disegni interviene spesso su cartoncini celesti, la cui freddezza cromatica del fondo diviene l’ambiente sul quale emergono monconi architettonici. Visioni, quelle della Shulkin, che sommano vuoti, freddezze e frammentarietà restituendo l’idea di uno spazio decomposto e desolato e che può farsi metafora sociale ed esistenziale.

Aurora Del Rio (1982) indaga il corpo attraverso una pittura fatta di presenze fluide ed evanescenti che ne mettono in crisi l’identità. Figure che manifestano crisi più ampie che non riguardano i soli individui. La sua tavolozza è costituita prevalentemente da rossi e azzurri stridenti, ma che possono virare in tonalità di viola per mescolanza di queste due tinte principali. Quest’acidità cromatica rende le figure ancora più violente, come improvvise aurore boreali o inquietanti fuochi fatui. Quest’aspetto cromatico sembra accelerare la temporalità, manifestando quei corpi come apparizioni improvvise e momentanee.

Come già detto quest’elenco non è da ritenersi completo, pertanto in futuri interventi è mia intenzione introdurre sia quei pittori che, nati negli anni ottanta del Novecento, hanno proseguito questa via, sia tutti quegli artisti che non ho qui riportato per assenza di dati. Mi limito per ora a un elenco di nomi di quanti tratterò in seguito, ma che anche in questo caso non va ritenuto completo: Adam James Riches, Alex Merritt, Chelsea James, Chiha Gregory, Gabriela Bodin, Gale Antokal, Janice Nowinski, Jennifer Pochinski, Julien Spianti, Linda Christensen, Lorenzo Ermini, Michel Martinez Vela, Olivier Rouault, Timothy Wilson, Tonia Erbino, Ulrika Lindblom, Ursula O’farrell.

Molti avranno notato l’assenza di un noto pittore italiano, Nicola Samorì (1977), che non ho incluso ritenendo la sua ricerca pittorica maggiormente orientata a una riflessione sull’arte, che può certo farsi metafora più ampia, ma che, come già scrissi, non è argomento della mia indagine.

Dico infine che la mia ricerca, per caratteristiche pittoriche e tematiche, è da ricondurre in quest’area.

 

 

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