Ecologia dell’immaginario

Muntaka Chasant, Burning sheathed cables to recover copper at the Agbogbloshie e-waste landfill near the center of Accra, Ghana’s capital city (detail)

 

Dopo questa lunga pausa estiva vorrei riprendere dal tema centrale di questo blog. Ossia da quel discorso già intrapreso attorno alle immagini e all’impatto che esse hanno nella costituzione del nostro immaginario e, dunque, del nostro vissuto, determinando molti dei nostri punti di vista e la “forma” del nostro pensare stesso.

Avevo già scritto di come la mia generazione fosse cresciuta sotto il potente influsso di un’informazione prevalentemente visiva, apportata da media differenti (https://www.danilosantinelli.it/danilos-blog/immaginari-colonizzati/), e di come la stessa formazione scolastica infantile, da Comenio in avanti, si sia avvalsa del grimaldello delle immagini nel corso dell’attività didattica delle varie discipline, seppur in assenza di una previa alfabetizzazione linguistico-espressiva rispetto alle grammatiche visive.

In più interventi, poi, ho cercato di dar prova del dissennato impiego, da parte di alcune frange dell’arte, d’immagini che rispondono ai soli criteri di mercato che le mutano in ulteriori strumenti di colonizzazione dell’immaginario degli individui e divenendo, infine, antitetiche all’arte stessa. O almeno a quell’intendimento dell’arte sancito dal Romanticismo, a seguito dell’abbandono della committenza, che le assegnava un ruolo di progettualità ed emancipazione umana e del quale oggi non sembra rimaner traccia. E così mi ero sforzato di rintracciare le ragioni storiche del tradimento di quel ruolo e dell’odierna deriva (https://www.danilosantinelli.it/danilos-blog/due-tre-cose-sul-blog/, https://www.danilosantinelli.it/danilos-blog/parte-prima-moderno-postmoderno-altermoderno-limmaginario-nellepoca-contemporanea/, https://www.danilosantinelli.it/danilos-blog/2-il-processo-di-astrazione-nelleta-contemporanea/, https://www.danilosantinelli.it/danilos-blog/3-il-processo-di-smaterializzazione-dellarte/).

Per queste ragioni molti degli interventi interni al blog trattano delle grammatiche espressive dell’immagine. In un mondo invaso dalle immagini e dai media visivi, la divulgazione di tale grammatica è uno strumento di ripristino della democrazia. Democrazia decaduta a seguito di un nuovo analfabetismo indotto da informazioni non decodificabili dai più, proprio perché d’immagini costituite e il cui linguaggio non è stato scolasticamente trasmesso.

A partire dai primi anni Settanta del Novecento si è fatto strada, sino a divenire emergenza, un pensiero ecologico-ambientale. Pensiero che lo storico Giampiero Carocci imputa alle mutazioni interne al periodo che va dal 1945 al 1973, caratterizzato dall’esplosione tecnologica ed economica dell’occidente seguita al secondo conflitto mondiale, aspetto che segnerà sempre più il divario con le aree geografiche del terzo mondo, dato anche l’accrescimento della popolazione e del benessere occidentali. Un benessere basato sulle pratiche industriali a modello fordista-keynesiano che termineranno con la crisi economica del 1972, ma che, appunto, determinarono l’avvio dell’allarme ecologico. Sempre a partire dai primi anni Settanta s’impone la cosiddetta Era dell’Informazione con i suoi beni immateriali, ormai prodotto di punta del capitalismo, che da analogico diviene digitale accelerando freneticamente il processo di alternanza di creazione-crisi del prodotto e del suo mercato. Crisi che ne consenta la sostituzione evitando la stagnazione del mercato a seguito di un decaduto interesse. Un processo fatto a spese ’int dere nazioni e aree geografiche e che ha per conseguenza una sempre più massiccia e rapida migrazione.

Questo pensiero ecologico-ambientalista, oggi così diffuso, rischia di naufragare qualora non tenesse nel debito conto l’identità visiva e costitutiva dei nuovi immaginari generazionali. Sia l’industria meccanica a modello fordista-keynesiano, sia quella digitale tipica dell’Era dell’Informazione, impongono i loro prodotti tramite immagini pubblicitarie, ma essendosi anzitutto premurate della creazione di un tessuto socio-culturale permeato di simboli iconici trasmessi tramite la televisione, i social network, i fumetti, il cinema, i video e i costumi musicali, la moda, l’arte, insomma tramite le molteplici declinazioni che le immagini possono assumere e che costituiscono l’immaginario di mercato sensibile a quel prodotto e, dunque, il mercato stesso fattosi ormai immateriale e unicamente “culturale”. La cultura, in tutte le sue forme, confluendo nel tipico processo dell’informazione-prodotto partecipa alla colonizzazione dell’immaginario anziché alla sua liberazione.

Questo immaginario del consumo frenetico, imposto dai media visivi, ha condotto al conseguente inquinamento. Per tale ragione occorre sviluppare un’ecologia dell’immaginario, richiedendo particolare attenzione e sforzo etici agli operatori dell’immagine: siano essi cineasti, fumettisti, artisti, operatori televisivi o di internet, stilisti, illustratori (in particolare quelli votati all’illustrazione per l’infanzia), designer, cartoonist. Qui non mi riferisco unicamente ai soggetti del loro operato o alla tipologia delle loro committenze, quanto al patrimonio formale che essi diffondono. Tale panorama formale, che diviene forma di pensiero, costituisce il tessuto economico di quell’industria ed economia, frenetica e spietata, che brucia intere aree geografiche e sociali precipitandole nella povertà, ma anche aree umane e morali che precipitano nella disperazione. Quel patrimonio formale è l’identità “fisica”, visibile e appetibile, di quell’economia capitalistico-immateriale e al contempo nostra forma e vizio mentale.

Non essendo plausibile poter cambiare la sostanza delle cose senza un cambiamento sostanziale del nostro pensiero, urge un’ecologia dell’immaginario che conduca a una differente “forma” di pensiero, che oggi coincide con le forme mediaticamente diffuse sempre più standardizzate per meglio adempiere al loro compito di merci.

Per queste ragioni la tanto decantata “professionalità”, nell’ambito delle arti visive, troppo spesso costringe gli operatori a promuovere forme banali e stereotipate che producono, o meglio riproducono, idee e pensieri altrettanto banali e stereotipati. Forme e pensieri che si rivelano nocivi perché materiale inquinante dell’immaginario diffuso.

 

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