1 – Moderno, postmoderno, altermoderno, l’immaginario nell’epoca contemporanea

Foto Emiliano Russo

 

Siamo dunque entrati nell’epoca altermoderna, successa al postmoderno e a sua volta successo al modernismo, ciò che sembra averlo suggerito è la retrospettiva tenutasi nel 2011 al Victoria and Albert Museum dal titolo Postmoderno – Stile e sovversione 1970 – 1990, curata da Glenn Adamson e Jane Pavitt, dichiarando la conclusione del postmodernismo stesso secondo il critico francese Nicolas Bourriaud (1965).

Ora vanno certamente poste due domande: la prima riguarda la data di tale conclusione, va cioè ritenuta valida la data d’inaugurazione della mostra suddetta, ossia il 2011, come termine del postmoderno o è invece da ritenere il 1990, suggerito dal titolo stesso dell’esposizione, la sua conclusione come logica vorrebbe; la seconda domanda concerne invece l’identità delle tre epoche storico-culturali succedutesi, la cui mancata comprensione inficerebbe la stessa asserzione e l’interrogativo a essa connesso.

Tutto ha inizio con la nascita dell’età contemporanea, che si fa coincidere con il 1789, data della rivoluzione francese, la quale muovendo dalle posizioni illuministe, a carattere scientifico-positiviste, apporta profondi mutamenti nella struttura socio-culturale e socio-economica del tempo, determinando l’avvio dell’era borghese essenzialmente tramite due vie: da una parte l’espansione culturale in senso democratico, non più appannaggio dei soli nobili, tramite la scolarizzazione, la nascita dell’informazione, dei musei, dell’enciclopedia, della letteratura di genere o paraletteratura e la nascita di nuove discipline, come l’archeologia e l’antropologia, delineeranno la fisionomia dell’immaginario culturale così come oggi lo conosciamo; l’altra via, che muove i suoi primi passi in Inghilterra con la prima rivoluzione industriale, determina la nascita del capitalismo e del potere economico e politico da parte della classe media, anch’esso sottratto alla classe nobile, che per mezzo della produzione industriale consente un abbassamento dei costi dei prodotti e un loro consumo diffuso, e di conseguenza, un crescente benessere materiale. È in questo medesimo periodo che nasce il catasto e il concetto di proprietà privata, con un confinamento sempre più stringente delle aree geografiche. Il modernismo s’innesterà, sul finire del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, in questo processo, che pur mantenendone i caratteri di emancipazione evoluzionistica, a seguito degli orrori e delle devastazioni della prima guerra mondiale, inizia altresì ad avvertirne le prime incrinature.

Con un’estrema semplificazione si potrebbe dire che il modernismo fu l’epoca del sogno dell’emancipazione, sociale e democratica, per mezzo dell’evoluzione scientifica e culturale, sogno che il postmoderno considera invece infranto dall’avvento dei totalitarismi, delle due guerre mondiali e dalle bombe atomiche. Il socialismo e il comunismo, che nacquero all’insegna della liberazione dei popoli, si rivelarono al contrario i loro oppressori, quella scienza che doveva liberare l’uomo, dalle schiavitù e dalle fatiche del lavoro, si trasformò anch’essa nel suo contrario, concependo armi di annientamento d’intere popolazioni e tecnologie industriali che annichilirono l’uomo e le sue capacità, pratiche e intellettive. L’uomo non era stato all’altezza del suo sogno e il postmoderno, sentendosi ingannato, fa deflagrare quei principi con un assaltato devastante, al quale non sopravvisse che il qui e ora, unica risposta alla continuità passato presente futuro dell’evoluzione ottimistico-positivista dell’uomo, principio fondante prima dell’illuminismo e poi del modernismo. Il postmoderno non volendosi sentir dire cosa fosse giusto fare, e non avendo più nulla di sensato e concreto da fare, si rifugia in un nichilismo appiattito sul singolo istante, senza consecutività precedenti o future, potendo contenere tutto e il suo contrario, palesandosi in un nuovo eclettismo architettonico con effetti paradossali da balocco e in un citazionismo ininterrotto, seppure puramente formale, in pittura. La conservazione della forma spuria dai contenuti che la generò è uno degli aspetti peculiari dell’espressione postmoderna. Aspetti che in più occasioni sono stati segnalati come patologici, affini ad alcune forme di schizofrenia, nelle quali il paziente perde la capacità della continuità temporale.

L’altermoderno giunge dunque a seguito del tramonto dei sogni e delle ideologie utopistiche, sostituiti da una momentaneità non programmatica, sprovvista di lasciti ereditari. Quest’assenza è la problematica insita nell’altermodernità, non avendo ereditato valori e miti, si vede abbandonata a se stessa, riuscendo ad assegnarsi l’unico compito di essere altro rispetto agli atteggiamenti postmoderni e non potendo riappropriarsi dei valori del modernismo glissando sulle verità storiche.

Non è certo un caso che dagli anni Novanta del secolo scorso sono stati compiuti molti sforzi saggistici nel tentativo di riannodare i fili di quella storia interrotta, alcuni dei quali, per lo sbigottimento di molti, dallo stesso Jean François Lyotard (1924-1998), che pure fu il capostipite della filosofia postmoderna. E questo certamente non perché il filosofo francese non avesse le idee chiare, ma al contrario vedendo chiaramente l’impasse culturale insita nel postmoderno, proprio alla scienza e alle nuove tecnologie assegna il compito di generazione di un futuro che, secondo Lyotard, non può essere che postumano (Riccardo Campa, Dal postmoderno al postumano: il caso Lyotard, in Letteratura-Tradizione, volume 42, 2008, https://ruj.uj.edu.pl/xmlui/handle/item/58854), quella scienza che il postmoderno stesso si era alacremente impegnato a screditare, quale radice positivista del pensiero evoluzionistico illuminista.

Nelle considerazioni appena fatte vi è un primo elemento di risposta all’altro interrogativo concernente la datazione dell’altermoderno. Si è detto che gli sforzi di ricostituzione della continuità storica sono in atto sin dagli anni Novanta del Novecento, coincidendo con quel 1990 che vorrebbe la conclusione della postmodernità e che si agganciano con altri elementi che dalla metà degli anni Novanta di quel secolo sono in atto: vi è da un lato l’emersione di un differente sentire pittorico, che nel corso del XX secolo si era fatto sotterraneo e sporadico e che nel XXI secolo è esploso in tutta la sua evidenza; dall’altro lato questo nuovo sentire, nel medesimo periodo, ha contrassegnato una svolta nell’ambito musicale, contrassegnata dalla generica etichetta di postrock, anch’esso deflagrato in tutta la sua evidenza alle soglie del nuovo millennio. Del resto anche la scena letteraria ha subito notevoli trasformazioni, al termine dell’ultimo decennio del Novecento appaiono le opere di quella che è la nuova generazione di scrittori, in Italia, per portare solo l’esempio nazionale, iniziano la loro attività letteraria il collettivo Wu Ming, Giuseppe Genna, Niccolò Ammaniti, Aldo Nove, Tiziano Scarpa e con essi altri.

Questi aspetti, appena segnalati, sono l’estensione di quel sentire altro di cui si è detto. Ma prima di poter trattare più dettagliatamente di questo differente sentire, che affronterò prevalentemente dal punto di vista dell’arte e in un successivo intervento, mi vedo costretto a fare un passo indietro, per approfondire alcune peculiarità postmoderne in risposta alla modernità. Le questioni che mi accingo a prendere in esame sono certamente complesse e ampie, impossibili da sintetizzare in un singolo intervento, è quindi indispensabile una loro separazione che consenta una più semplice lettura ai fruitori del blog.

Chi appartiene alla mia generazione, cresciuta nel pieno sviluppo del postmoderno, si sarà certamente imbattuto nella Guida al Novecento di Salvatore Guglielmino, dalla quale mi pare interessante partire, proprio perché testo scolastico di formazione sulla storia della letteratura del XX secolo, ma anche perché in essa il Guglielmino aveva già colto lucidamente alcune delle caratteristiche, e delle perplessità, insite nella postmodernità. Nel capitolo sulla neo-avanguardia (corrente sviluppatesi negli anni Sessanta contrapponendosi al precedente neorealismo e che fondamentalmente coincide con il Gruppo ’63, i cui componenti sono: Alberto Arbasino, Luciano Anceschi, Nanni Balestrini, Renato Barilli, Achille Bonito Oliva, Giorgio Celli, Furio Colombo, Corrado Costa, Fausto Curi, Oreste Del Buono, Roberto Di Marco, Umberto Eco, Enrico Filippini, Alfredo Giuliani, Alberto Gozzi, Angelo Guglielmini, Patrizia Vicinelli, Germano Lombardi, Giorgio Manganelli, Giulia Niccolai, Elio Pagliarini, Michele Perriera, Lamberto Pignotti, Antonio Porta, Edoardo Sanguineti, Giuliano Scabia, Adriano Spatola, Aldo Tagliaferri, Giancarlo Marmori, Gian Pio Torricelli e Sebastiano Vassalli)     l’autore riprende la tematica del rapporto tra letteratura e industria editoriale – aspetto che anima il dibattito negli anni Sessanta – elencandone le criticità:

«[…] la reificazione del prodotto culturale e la sua riduzione a ‹merce›; il conseguente condizionamento dell’artista costretto a rispondere alle esigenze dei consumatori che — più numerosi ma appunto per questo meno qualificati — chiedono prodotti di intrattenimento,, fruibili con facilità; la produzione Kitsch che risponde perfettamente a questa esigenza; la vischiosa serie di legami tra editori e grandi organi di informazione, tra autori e critici, tra case editrici e giudici dei premi letterari, tra artisti e mercanti d’arte.» (Salvatore Guglielmino, Guida al Novecento, [1971], Milano, Casa Editrice G. Principato, 1982, p.381).

Seppure in apparenza il Gruppo ’63 condanna la mercificazione culturale, saranno proprio i suoi componenti, con i loro atteggiamenti letterari e intellettuali, a imprimere la svolta definitiva della cultura in senso meramente merceologico, dando un contributo fondamentale allo sviluppo del pensiero e delle pratiche postmoderne.

«[…] — sostengono i teorici dell’avanguardia — interpretare la realtà, rappresentarla movendo da premesse ideologiche che situano in una certa prospettiva e gerarchia i fatti non è più possibile: significa dare immagini false del reale, in quanto tale reale viene così costretto nel letto di Procuste della ideologia. Invece oggi nessuna ideologia è in grado di offrire una interpretazione esauriente del mondo e allorché allora si tenti di utilizzarle in questo senso non possono che produrre falsi significati sostiene A. Guglielmini. E aggiunge: la linea viscerale della cultura contemporanea in cui è da riconoscere l’unica avanguardia oggi possibile è a-ideologica, disimpegnata, astorica, in una parola atemporale; non contiene messaggi, né produce significati di carattere generale. Non conosce regole (o leggi) né come condizione di partenza, né come risultato di arrivo. Suo scopo è quello di recuperare il reale nella sua intattezza: ciò che può fare sottraendolo alla storia, scoprendolo nella sua accezione più neutra, nella sua versione più imparziale, al grado zero.

Posizioni queste, che come ha obiettato Calvino in un saggio famoso, teorizzano il naufragio nel mare dell’oggettività, la rinunzia alla ragione, la resa incondizionata al labirinto di una realtà di cui ci si dà per ammessa e irreversibile la dimensione di caos. Da questa posizione di neutralità ideologica deriva una conseguenza: nella produzione precedente veniva assunta come elemento privilegiato l’ideologia, ora invece viene assunto il linguaggio.» (Salvatore Guglielmino, Guida al Novecento, [1971], Milano, Casa Editrice G. Principato, 1982, p.385).

Per quest’ultima ragione assumeranno sempre più rilevanza e potere le posizioni di Umberto Eco e della semiologia, sarà del resto proprio Eco a redigere il romanzo più importante del postmoderno italiano, Il nome della Rosa (1980). Nelle osservazioni citate da Guglielmino sono elencate una ad una, tramite le parole di Guglielmini, le caratteristiche tipiche della postmodernità: astorica, atemporale, disimpegnata, anti ideologica, priva di significati e messaggi; e tutto questo, paradossalmente, per inseguire un realismo puro, come se potesse esservi un realismo fuori del tempo e della storia, come se fosse effettivamente possibile approdare al grado zero. Ma aspetto ancora più paradossale è che tali posizioni muovevano proprio da una premessa d’opposizione alla letteratura commerciale, definendo Cassola, Bassani e Pratolini, in quanto propaggine neorealistica alleggerita, le «Liale del ’63», quando saranno invece proprio quelle caratteristiche da loro assunte e sostenute ad alimentare e spingere la letteratura, e la cultura più in generale, in direzione del mercato, sino a rendere le due cose inscindibili. Eliminare il significato, ogni forma di presa di posizione a vantaggio del disimpegno, dell’assenza di confronto con la storia e il tempo, appiattendosi sulle sole problematiche formali e linguistiche, è quanto consente al mercato di avere un prodotto ideale, veloce e di facile consumo, che, come il mercato, non conosce regole, se non quella di dover bruciare e consumare tale prodotto in fretta e con il massimo del profitto, sostituendolo immediatamente con il successivo. Tutto si riduce appunto al qui e ora postmoderno, che consente di avere le mani libere da compiti e responsabilità e di mescolare tutto e il suo contrario, purché quel tutto sia privo di contenuto e significato.

«L’attenzione per la frammentazione del linguaggio e l’instabilità del linguaggio porta direttamente, per esempio, a uno specifico concetto di personalità. In sintesi, questo concetto si concentra sulla schizofrenia. […] Jameson [1984b] esplora questo tema in modo molto efficace. Egli usa la descrizione di Lacan secondo cui la schizofrenia è un disturbo linguistico, un’interruzione nella catena significante che crea una semplice frase. Quando la catena significante si spezza, ‹abbiamo schizofrenia sotto forma di un mucchio di significanti distinti e non collegati›. Se l’identità personale si forma attraverso ‹una certa unificazione temporale del passato e del futuro con il presente davanti a me› e se le frasi si muovono lungo lo stesso percorso, allora l’incapacità di unificare passato, presente e futuro nella frase denota una simile incapacità di ‹unificare il passato, il presente e il futuro della nostra esperienza biografica o vita psichica›. Tutto ciò si concilia, naturalmente, con l’attenzione che il postmoderno riserva al significante piuttosto che al significato, alla partecipazione, alla performance e all’happening piuttosto che all’oggetto d’arte autorevole e finito, alle apparenze superficiali, piuttosto che alle radici. L’effetto di una simile rottura nella catena del significante è tale da ridurre l’esperienza a ‹una serie di tempi presenti puri e non collegati›.

[…] La riduzione dell’esperienza a ‹una serie di tempi presenti puri e non collegati› implica ancora che ‹l’esperienza del presente diventa vivida e “materiale” in modo possente, travolgente: il mondo si presenta allo schizofrenico con maggiore intensità, portando una carica misteriosa e oppressiva di affetto, splendente di energia allucinatoria›. L’immagine, l’apparenza, lo spettacolo possono essere sentiti con un’intensità (gioia o terrore) resa possibile soltanto dal fatto che sono visti come presenti puri e non collegati. Che importa, allora, ‹se il mondo perde momentaneamente la sua profondità e minaccia di diventare una pelle lucida, un’illusione stereoscopica, un rapido susseguirsi d’immagini filmiche senza densità?›

[…] Un simile crollo dell’ordine temporale conduce inoltre a un modo peculiare di trattare il passato. Rifuggendo dall’idea di progresso, il postmodernismo abbandona ogni senso di continuità e ogni memoria storica, mentre al tempo stesso sviluppa un’incredibile capacità di saccheggiare la storia e di assorbire, quale aspetto del presente, qualsiasi cosa vi trovi.» (David Harvey, La crisi della modernità, [1990], Milano, Il Saggiatore, 1997, pp.73-76).

«Il linguaggio quindi non deve mirare ad altro che alla comunicazione della negazione della comunicazione esistente (A. Guglielmini); e quindi allo scardinamento di ogni forma sintattica e di ogni dimensione semantica: è il caso, già citato, del Laborintus di Sanguineti, o quello di Pagliarani che accosta linguaggio pubblicitario, indicazioni da manuale da dattilografia, spezzoni di parlato come elementi, voci di realtà e di mondi diversi e si affida così all’urto che ne deriva. Ciò perché il linguaggio, da solo, è in grado di dare una visione caotica di una caotica realtà, al di là di ogni lettura e interpretazione di questa realtà in base a presupposti ideologici; con un linguaggio simile si arriva (sempre a giudizio del citato Gugliemini) ad una poesia dell’alienazione, ad una sorta di visione schizzofrenica della realtà» (Salvatore Guglielmino, Guida al Novecento, [1971], Milano, Casa Editrice G. Principato, 1982, p.386).

In sostanza il Gruppo ’63, con i suoi atteggiamenti velleitari, ha consegnato la cultura nelle mani del mercato e dell’economia, sottraendole il compito storico di analisi critica del reale, di riflessione sulla storia, di progettualità dell’evoluzione civile, sociale e culturale. Il Gruppo ’63 e la postmodernità hanno tradito la missione loro assegnata, adottando un atteggiamento adolescenziale di sottrazione dalle proprie responsabilità d’intellettuali. Si potrebbe obiettare che gli intellettuali non necessariamente debbano adempiere a tale compito, ma ciò equivarrebbe ad una loro totale assenza di compito e scopo sociale, figure avulse dal contesto della vita reale e civile, delle quali, la società stessa, potrebbe tranquillamente fare a meno. È bene essere chiari e fermi su questo punto, se si vuole avere una ben che minima possibilità di fuoriuscire dalle pastoie e dalle compromissioni che il postmoderno ha ingenerato, determinando lo sfacelo culturale e sociale che ci si pone oggi innanzi. Quel non-pensiero, quell’affastellamento incondizionato e acritico di materiali, ha condotto a uno svilimento, a un depauperamento e a uno svuotamento totale dell’immaginario diffuso, rendendoci, a nostra volta, consumatori acritici, sino a divenire prodotto delle nuove pratiche economico-digitali tipiche degli odierni social media (un aspetto già sottolineato nell’introduzione a questo blog). Si tratta di un confronto improcrastinabile con la nostra storia recente, senza il quale è impossibile una qualsiasi progettualità futura. Progettualità che, del resto, la postmodernità ha tentato di minare in ogni modo, ma della quale lo stesso Lyotard, come si è detto, avvertì l’esigenza.

Il passaggio dal modernismo al postmoderno è segnato, in arte, da un precedente. A seguito della seconda guerra mondiale, della distruzione che generò in Europa, della persecuzione degli intellettuali da parte del nazismo, molti di essi rifugiarono negli Stati Uniti, si determinò uno spostamento del centro culturale da Parigi al nuovo mondo. Superato un primo momento di traghettamento e assestamento di tale situazione, l’America si fece promotrice delle nuove avanguardie, la prima delle quali fu l’espressionismo astratto, che da subito presentò caratteri nuovi rispetto alle avanguardie storiche di matrice europea, impegnate com’erano ideologicamente e politicamente. «Il problema era [ci dice ancora Harvey] che il modernismo internazionale aveva mostrato forti tendenze socialiste o persino propagandiste negli anni trenta (con il surrealismo, il costruttivismo e il realismo socialista). La depoliticizzazione del modernismo che si ebbe con la nascita dell’espressionismo astratto, ironicamente faceva presagire la sua adozione da parte dell’establishment politico e culturale quale arma ideologica nella guerra fredda. L’arte era abbastanza piena di alienazione e ansia, ed esprimeva a sufficienza la frammentazione violenta e la distruzione creativa (tutto ciò era sicuramente adeguato all’era nucleare) per poter essere usata quale meraviglioso esempio dell’impegno americano in difesa della libertà di espressione, dell’individualismo e della libertà creativa» (op. cit., p. 54).

Da questa prima depoliticizzazione dell’arte si passerà, subito dopo, al New Dada, il quale pur conservando alcune delle presenze materiche e gestuali tipiche dell’espressionismo astratto, ad esse accosta i simboli massmediologici, dando così avvio alle prime pratiche di commistione che saranno poi tipiche del linguaggio postmoderno, nonché l’elemento fondante della successiva Pop Art, che farà dei simboli mediatici e di consumo l’elemento espressivo per eccellenza, decretando il definitivo livellamento dell’arte e della cultura ai principi del mercato. Gli Stati Uniti compresero perfettamente che la vera arma di conquista era questa, molto più efficace delle armi militari convenzionali, la colonizzazione dell’immaginario tramite i modelli dell’infinita riproducibilità mediatica, continuamente proposti dal cinema, dalla televisione, dalla pubblicità e dall’arte che ne assunse linguaggio e simboli. Da qui in avanti i ruoli all’interno del mondo dell’arte saranno sempre più frammentati e separati e gli artisti perderanno, man mano, sempre più il loro compito di intellettuali, lasciando pronunciare i soli critici d’arte e accontentandosi del ruolo di meri esecutori di quelle che diverranno operazioni artistiche create a tavolino e finalizzate alla fascinazione del mercato artistico, vere e proprie operazioni di mercato, che successivamente si faranno sempre più spinte e audaci, di cui la Pop Art è la progenitrice cosciente e l’espressionismo astratto incosciente. Non è un caso che critici come Achille Bonito Oliva (1939), in precedenza membro della neo-avanguardia, escogiti la Transavanguardia, il cui nome porta già su di sé i segni tipici dell’obliante affastellamento formale, i cui protagonisti si rivelano passeggiatori distratti e acritici, perché meri esecutori, di parvenze del passato espropriate delle loro ragioni storiche e di significato. I segni di questa deriva sono sotto gli occhi di tutti, le grandi gallerie e i grandi musei d’arte contemporanea ne ospitano innumerevoli testimonianze, forme d’intrattenimento momentaneo sprovviste di ogni forma analitica e di critica o riflessione sociale. Ma aspetto ancora più grave è come tali forme si siano ormai diffuse, tramite l’installazione e la street art, al territorio pubblico, rendendo il bombardamento spettacolare dell’intrattenimento onnipresente, nella vita reale e in quella virtuale dei social media dove vengono continuamente riproposte, e deprivando lo stesso territorio pubblico della sua accezione prima, poiché tali forme espressive, nella quasi totalità dei casi, non apportano alcuna riflessione di natura pubblica e sociale.

Come già ribadito nell’introduzione, questo blog vuole costituire un momento di riflessione analitica su tali questioni e, per quanto possibile, rilevarne possibilità di soluzione e uscita.

Nella seconda parte ci occuperemo più da vicino delle mutazioni avvenute nello scenario artistico e della loro progressiva astrazione dalla realtà.

 

 

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