Illusorietà del realismo

Anonimo, Veduta di citta ideale (particolare), 1490-99ca

 

Questo, che qui presento, è il primo di una serie d’interventi finalizzati alla divulgazione delle grammatiche visive. Un aspetto che, come dissi nella premessa al blog (https://www.danilosantinelli.it/danilos-blog/due-tre-cose-sul-blog/), è strettamente legato all’analisi degli aspetti caratteristici della postmodernità, dato l’impiego massiccio delle immagini e della loro vasta diffusione attuata dal postmoderno in funzione di veicolo linguistico privilegiato e riconducibile alle sue caratteristiche di velocita di penetrazione inconscia, che in assenza di un’educazione all’alfabetizzazione visiva si rivela ancor più funzionale. Ledendo, dunque, le possibilità di scelta cosciente e democratica degli individui.

I testi visivi si esprimono tramite codici interni che ne determinano composizione, forma e colore, tali codici si rivolgono al nostro modo di vedere e pensare le cose. Le immagini sono progettate sulla base delle conoscenze del nostro sistema visivo e psichico, dunque, fare un discorso sulle immagini presuppone il principio basilare che esse in nessun caso sono la realtà, si rivolgono invece al nostro modo di percepire, otticamente e mentalmente, la realtà. Per questa ragione le immagini sono così efficaci, parlano al nostro immaginario e al nostro modo di guardare il mondo, sino a riprodurne le storture che il nostro sistema percettivo applica a esso.

Parlare di realismo nel sistema espressivo delle immagini è dunque fuorviante. Basti pensare a quello che riteniamo uno dei massimi esempi di rappresentazione realistica, ossia la prospettiva matematica, per la quale due binari ferroviari che si allontanano verso l’orizzonte sono mostrati come convergenti. Chiaramente la prospettiva si rivolge al nostro limitato apparato percettivo, che appunto vede la convergenza dei due binari, e non alla realtà nella quale i due binari non potrebbero mai convergere senza provocare deragliamento ferroviario. Il motivo per il quale la prospettiva ci appare tanto realistica risiede nel fatto che ci mostra le cose come le vediamo e non come esse sono effettivamente nella realtà. Va poi tenuto conto di come, essa, riproduca il nostro difetto percettivo tramite rappresentazione monoculare – aspetto a sua volta dovuto alle limitazioni tecniche del disegno – anziché in modo binoculare sovrapponendo la visione del medesimo soggetto da due punti di vista leggermente differenti, come invece avviene nella nostra percezione del mondo.

Tale questione include anche la più recente espressione fotografica. La fotografia riproduce, infatti, l’errore di convergenza visiva degli oggetti in lontananza. Nonostante la sua apparente tendenza documentaria essa non può prescindere dall’apporto soggettivo che si manifesta ogni qualvolta lo sguardo, tramite l’obiettivo, impone arbitrarietà frazionando il soggetto preso in esame. Il taglio e l’inquadratura determinano una lettura del tutto soggettiva dell’oggetto fotografato, mostrandocelo non per come esso si presenta, ma per come lo stiamo interpretando e intendiamo mostrarlo allo spettatore. Errore che troviamo ugualmente riprodotto nel cinema (alcuni critici cinematografici individuarono nel realismo spazio-temporale la rivoluzionaria identità del linguaggio cinematografico, apice realistico all’interno di un percorso originatosi con la pittura prospettica rinascimentale). Che dire poi del suo aspetto dinamico? Anch’esso fittizio, suggerito al nostro sguardo dai ventiquattro fotogrammi che in un secondo si susseguono durante la proiezione cinematografica (i fotogrammi nella riproduzione televisiva analogica divengono 25, mentre nei sistemi HDTV posso raggiungere i 50 o 60 fotogrammi al secondo), ma che nella realtà, senza il nostro intervento di spettatori, rimarrebbero assolutamente separati tra di loro.

Pensiamo ancora alla sequenzialità propostaci dal fumetto. Qui addirittura lo spettatore dona continuità temporale a immagini che, sulla carta, appaiono evidentemente separate dalle caratteristiche vignette che lo costituiscono. Quello spazio bianco che si frappone tra una vignetta e l’altra è il tempo, la durata temporale che intercorre tra l’evento rappresentato nella vignetta precedente e quello rappresentato nella successiva. Ma in questo caso, il tempo non è indotto come nella proiezione cinematografica, si determina invece come totalmente interno allo spettatore, coinvolgendolo dunque nella costruzione narrativa delle vicende e alle quali ciascuno di noi può imprimere un andamento leggermente differente nonostante i suggerimenti grafici fornitici dall’autore.

Chi frequenta il fumetto sa come certe tipologie di rappresentazione, come la supereroistica americana o la bonelliana (Sergio Bonelli Editore) nazionale, siano definite realistiche. Una definizione dovuta proprio alla rappresentazione prospettica, alla quale si accompagna l’impiego di un’anatomia di ascendenza michelangiolesca e di natura modulare, all’interno della quale i personaggi si presentano come perfettamente simmetrici. Espediente che consente al fumettista un’immediata riproduzione e riconoscibilità dei personaggi presentati centinaia di volte nelle pagine dell’albo. Tale modularità nella realtà è invece parzialmente smentita dalla nostra imperfetta fisicità, per la quale è possibile avere un arto leggermente più lungo dell’altro, le spalle non perfettamente allineate e così via. Aspetti che con il sopraggiungere dell’età e dei difetti posturali si acuiscono sempre più. La modularità dei personaggi nei fumetti è affine alla perfezione dei moduli geometrici. La loro stessa natura grafica, che definisce i personaggi tramite una linea nera di contorno, è evidentemente irrealistica. Si tratta appunto di una sintesi grafica che consente all’autore una traduzione del mondo nei fumetti, ma completamente assente nel mondo reale. Tralasciamo poi certe palesi forzature e assurdità anatomiche presentate nell’universo supererostico americano.

Ognuna delle discipline inerenti al disegno: fumetto, illustrazione, pittura, ha un differente approccio alla traduzione anatomica dei soggetti e a quella spaziale del paesaggio, sia esso naturale o architettonico. Se il fumettista di area tradizionale agisce geometricamente nella riproduzione spaziale del paesaggio urbano con l’ausilio di riga e squadra, nel caso dell’illustratore la resa prospettica si fa invece più intuitiva, ottenuta da una sua traduzione a mano libera e all’interno della quale i soggetti paesaggistici e umani, con maggiore facilità, tendono a un’evidente deformazione grafica o pittorica. L’illustrazione presenta, infatti, infinite possibilità di declinazioni tecnico-stilistiche di rappresentazione. Per le quali può oscillare dall’impiego della linea grafica, a quello del collage, a quello delle varie materie pittoriche, alle più recenti tecniche digitali. E non è certo raro che le tecniche si sovrappongano tra loro e che l’alfabeto stilistico possa costituirsi prevalentemente di materia in una traduzione dei soggetti assolutamente sprovvista del segno.

Se poi prendiamo in esame l’impiego anatomico operato dalla pittura, almeno da quella di area tradizionale, ci si rende conto di come modularità e regolarità siano una traduzione idealistica di armonia formale di ascendenza ellenica. Certo in alcuni autori tale modularità si fa più spinta ed evidente, come nel caso di Piero Della Francesca (1416-1492), dove addirittura i volti sembrano intercambiabili e dove la perfezione armonica della forma matematica prende il sopravvento su tutti gli altri aspetti. Un discorso particolarmente presente nella produzione rinascimentale dell’Italia centrale, che tende invece ad affievolirsi o a venir meno in altre aree, come in quella veneta o lombarda: dove, nella prima, prende il sopravvento una materia pittorico-cromatica resa evidente, ad esempio, nell’opera di Tiziano (Tiziano Vecellio 1488/90-1576) o di Tintoretto (Jacopo Robusti detto Tintoretto 1518/19-1594); e, nella seconda, l’impiego della luce che amplifica gli aspetti chiaroscurali in termini leonardeschi, dove i volumi anziché stagliati dalle ombre sono da esse compenetrati, assegnando alle opere un’indefinita evanescenza atmosferica e un maggiore sentore temporale, che la condurrà poi, nei primi del Seicento, all’esplosività caravaggesca. Un discorso, questo, che non vuole certo essere esaustivo delle tradizioni stilistico-pittoriche e che si avvale invece di poche esemplificazioni della loro complessità linguistica. Del resto le tradizioni pittoriche hanno ascendenze di lunga data e provenienze geografiche molteplici. Aspetto dovuto alla longevità di questa espressione artistica, che, come si suole dire, risale alla notte dei tempi, tanto da coincidere con la nostra stessa comparsa sul pianeta.

Dobbiamo dunque chiederci, infine, cosa siano i testi visivi avendone negata una loro identità in termini realistici, ossia di soggetti equivalenti a finestre affacciate sul mondo. Un testo visivo, in definitiva, è lo strumento espressivo con il quale un artista, appartenente a una delle discipline visive, propone la sua interpretazione del mondo e degli eventi ad esso inerenti. Ma tale espressività non si palesa tramite i soggetti dipinti, o il soggetto della narrazione cinematografica o fumettistica o, ancora, illustrativa, si palesa invece, anzitutto, tramite i mezzi grafici e/o materici che l’autore ha adottato; poiché a un determinato segno, a una determinata gestualità pittorica, a una determinata cromaticità pittorica o fotografica (e in questo caso connessa alla tipologia di inquadratura), corrisponde una resa espressiva dei soggetti. Dunque prima ancora dei soggetti, si fanno portatori di significato gli strumenti adottati in base al loro impiego. La grammatica visiva va dunque intesa in tal senso, poiché si occupa degli aspetti primi linguistici che consentono ad un autore di esprimersi e ad uno spettatore, o lettore, di comprenderne il linguaggio che è già parte sostanziale del messaggio.

 

 

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