Dal postmoderno all’altermodernità 7

Seminario tenuto il 7 novembre 2020 presso la Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi, all’interno del ciclo dal titolo Interventi attorno Chiari

 

L’Altermoderno

Nicolas Bourriaud, Il radicante, 2014

Nel 2011 al Victoria and Albert Museum si tiene una mostra retrospettiva sulla postmodernità dal titolo Postmoderno – Stile e sovversione 1970 – 1990, curata da Glenn Adamson (1972) e Jane Pavitt, che dichiara la conclusione del postmodernismo stesso secondo il critico francese Nicolas Bourriaud (1965), il quale,  nel suo saggio Il Radicante (2009), introduce il termine Altermoderno. Prima di dar conto dell’Altermoderno vorrei far notare la datazione interna al titolo della mostra, dalla quale si intuisce, a rigor di logica, che questa nuova epoca, seguita al postmoderno, non può essere collocata nel 2011 (data della stessa mostra), bensì a partire dalla metà circa degli anni Novanta. Se il ciclo postmoderno, come recita il titolo dell’esposizione, si chiude nel Novanta, ad esso deve necessariamente seguire l’epoca successiva e, proprio alla metà dei Novanta, rimandano una serie di altri fenomeni allora verificatisi, come la nascita del cosiddetto Post-Rock o nuove esperienze letterarie, come quella del collettivo Wuming, di Giuseppe Genna (Giuseppe Genna 1969), Niccolò Ammaniti (1966), Aldo Nove (1967), Tiziano Scarpa (1963) e con essi altri, come pure iniziano nuove esperienze nelle arti visive che tra poco vedremo.

Come scrive Bourriaud il prefisso ‘alter’ pone fine alla cultura del ‘post’ raccogliendo le nozioni di alternativa e molteplicità e precisando che «indica un altro rapporto col tempo: non più il dopo di un momento storico ma il dispiegamento infinito del gioco dei circuiti temporali, al servizio di una visione della Storia a spirale, che avanza pur tornando su se stessa. L’altermodernità, che consiste in un cambio di posizione nei confronti del fatto moderno, non considera quest’ultimo come un evento di cui si tratterebbe di dipingere il dopo, ma come un fatto tra gli altri, da approfondire e considerare in uno spazio infine de-gerarchizzato, quello di una cultura mondializzata e preoccupata da nuove sintesi».

L’altermoderno, contrapponendosi alle logiche postmoderne, vuole riappropriarsi della consecutività temporale del moderno, ed è quindi un alter (altro) moderno che nella sua definizione lo richiama. Abbandonando al contempo la linearità temporale del modernismo per immettersi nello spazio-tempo del percorso compiuto dall’artista, che nella sua simultaneità raccoglie segni che connettono passato-presente-futuro, contraendolo o dilatandolo. Bourriaud ha titolato il suo testo Il radicante, una metafora vegetale che tende a evidenziare un aspetto altrettanto importante di quest’alternativa modernità. I radicanti, a differenza dei più comuni vegetali dotati di radice fissa, si propagano mettendo radici man mano che avanzano, come nel caso dell’edera. Quest’aspetto si fa metafora di una società contrassegnata dalla multietnicità dovuta alle migrazioni geografiche e che necessariamente annovera anche le migrazioni e ibridazioni culturali. Inoltre, il critico francese, vuole con essa rinunciare a quell’aspetto della conservazione delle radici nazionali tipica del modernismo colonialista ed eurocentrico. Bourriaud sostiene che il rifiuto di questa rinuncia sia necessariamente sinonimo di conservativismo ed espressione di sovranismo. Un’equazione sin troppo automatica e alla quale lega ulteriori condizioni altrettanto meccaniche. Ritiene, ad esempio, indispensabile che le nuove forme d’arte si costituiscano necessariamente come multidisciplinari, altrimenti anch’esse espressive di conservatorismo e nazionalismo. Per Baurriaud il soggetto e l’oggetto dell’arte radicante non hanno un’identità stabile, l’uni-disciplinare diviene dunque stanzialità. Il vero soggetto e oggetto dell’opera radicante è il percorso all’interno del quale l’artista si applica in uno sforzo di traduzione dalla propria lingua-cultura di appartenenza nelle lingue-culture che attraversa, un incontro che approda necessariamente ad una multidisciplinarità che rinneghi la supremazia del visibile (immagine) o dell’immaterialità astratta della parola. L’identità dell’opera è costituita dal movimento, dal percorso traduttivo compiuto dall’artista, creatore di percorsi in un paesaggio di segni, all’interno del quale si muove come un semionauta. Quello radicante si pone come pensiero relativistico: pur non potendo rinunciare o obliare le proprie appartenenze e provenienze culturali, l’artista radicante decide per una non-appartenenza che lo emancipi dal singolo schema culturale. È questo incontro, questa frizione tra i differenti semi culturali, che produce nuovo e differente significato, ma solo escludendone l’io, quell’io tipico della prospettiva occidentale e coloniale insita nel modernismo che presuppone superiorità. In sostanza, l’artista radicante, sceglie la multidisciplinarità culturale e la precarietà spaziale rifiutando le singolarità di appartenenza, nel tentativo di opporsi alla globalizzazione standardizzante tipica del modernismo colonialista.

«Quest’ultima», scrive Bourriaud intendendo la globalizzazione, «interroga anzitutto i nostri modi d’interpretazione. Più esattamente, è il luogo di uno sconvolgimento totale dei rapporti tra figurazione e astrazione. Poiché il modernismo è legato alla macchina capitalista proprio a livello di rappresentazione del mondo; laddove si fabbrica l’immagine generale che ne abbiamo, poi le multiple immagini prodotte dagli artisti, che la possano riecheggiare, confermare o confutare. Agente propagatore di un virus astratto (‹deterritorializzante›, per utilizzare un termine deleuziano), la globalizzazione sostituisce alle singolarità locali i suoi loghi, gli organigrammi, le formule e le ricodificazioni. Coca-Cola è un logo senza luogo; al contrario, ogni bottiglia di Château Yquem racchiude una storia fondata su un territorio specifico. Tuttavia, questa storia è in realtà mobile. La si importa con la bottiglia, campione portatile del terroir. Il momento in cui i gruppi umani perdono ogni contatto vivente con la rappresentazione è il momento astratto attraverso il quale il capitalismo unifica le sue proprietà: la globalizzazione porta così in sé un progetto iconografico implicito, quello di sostituire alla figurazione dello spazio-tempo vissuto tutta un’apparecchiatura di astrazioni, la cui funzione è duplice. Da una parte queste ‹astrazioni› camuffano la standardizzazione forzata del mondo con immagini generiche, alla maniera di una palizzata da cantiere. D’altra parte legittimano questo processo imponendo, contro gli immaginari indigeni, un registro immaginario astratto che mette il repertorio storico dell’astrazione modernista al servizio di un ersatz di universalismo dotato di una patina di ‹rispetto delle culture›.

Ma s-collarsi così dal territorio, affrancarsi dal peso delle tradizioni nazionali non è forse il mezzo per lottare contro questi ‹arresti domiciliari› che criticavo in precedenza? Qui bisogna distinguere tra la movimentazione delle identità in un progetto nomade e la costituzione di una cittadinanza elastica basata sui bisogni del capitale, immersa in una cultura avulsa dal suolo. Da un lato la creazione di relazioni fra il soggetto e i territori singolari che attraversa; dall’altro la produzione industriale di immagini-schermo che permettono di staccare gli individui e i gruppi dal loro ambiente e impedire ogni rapporto vitale con un luogo specifico. Quando i minorenni colombiani o russi impiegati da una multinazionale svizzera, Glencore, vengono licenziati in nome di nuove delocalizzazioni più redditizie, con quale immagine del potere si confrontano? Con un’immagine astratta. Impiegati interscambiabili, un potere irrappresentabile, l’amministrazione di un potere non-localizzabile. I nuovi poteri non hanno luogo: si dispiegano nel tempo. Coca-Cola basa il suo sulla ripetizione del proprio nome in pubblicità, nuova architettura del potere. Come prendere la Bastiglia se è invisibile e proteiforme? Il ruolo politico dell’arte contemporanea risiede in questo fronteggiamento con un reale che si defila per apparire sotto forma di loghi ed entità non-figurabili: flussi, movimenti di capitali, ripetizione e distribuzione dell’informazione, altrettante immagini generiche che intendono sfuggire a ogni visualizzazione non controllata dalla comunicazione. Il ruolo dell’arte è diventare lo schermo radar sul quale queste forme furtive, individuate e incarnate, possono infine apparire ed esser nominate o raffigurate.

[…] Non si combatte l’astrazione-irrealizzante se non con un’altra astrazione, che dà a vedere ciò che le cartografie ufficiali e le rappresentazioni autorizzate dissimulano».

Dunque Bourriaud perpetua in quel processo di astrazione che ha caratterizzato tutta la contemporaneità non trovando soluzioni alternative. Per sfuggire all’uniformità globalizzante e omogeneizzante e riscoprire la singolarità «numerosi artisti», scrive ancora Bourieaud riferendosi agli artisti radicanti, «estraggono una forma anodina dalla realtà quotidiana o un aneddoto dal passato», praticando così quell’atto di astrazione descritto da Worringer nel 1907 in Astrazione ed Empatia, attuato tramite l’isolamento di un elemento dal suo contesto d’origine. Si devono scoprire, sostiene ancora Bourriaud, le increspature di una realtà globalizzante che uniforma anche gli spazi insinuandovisi come granello di sabbia nella macchina per fabbricare il globale. L’esposizione delle opere radicanti può quindi avere luogo in spazi come aeroporti, centri commerciali, o nel quartiere cinese di New York, luoghi di passaggio e di spostamento delle persone, delle culture, ma al contempo delle merci e del capitale.

«Queste pratiche ipercapitaliste [degli artisti radicanti] riposano sull’idea di un’arte senza materia prima, che si basa sul già-prodotto, sugli ‹oggetti già socializzati›, per riprendere l’espressione di Frank Scurti.

[…] Significa altresì partecipare alla defiticizzazione dell’opera d’arte: il carattere deliberatamente transitorio dell’opera non è affermato nella sua forma, poiché quest’ultima talvolta è durevole e solida, e non si tratta nemmeno di sostenere una qualsiasi immaterialità dell’opera d’arte quarant’anni dopo l’arte concettuale. La ‹defiticizzazione› dell’arte non concerne affatto il suo statuto di oggetto: d’altro canto, le merci celebri del nostro tempo non lo sono, come ricorda Jeremy Rifkin. No, questo carattere transitorio e instabile è rappresentato nelle opere contemporanee dallo statuto che rivendicano nella catena culturale: uno statuto di evento, o di repliche di eventi passati».

L’errore compiuto da Bourriaud è nel ritenere, assieme al Critical Art Ensemble, che «se l’industria non è in grado di differenziare i propri prodotti attraverso lo spettacolo  dell’originalità e dell’unicità, la sua reddittività crolla».

il complesso teorico di Bourrieaud diviene così fallimentare, proprio perché si rivela un’astrazione che al pari delle correnti fredde, come già aveva rivelato alla metà degli anni Settanta Corrado Maltese, vorrebbe opporsi a un sistema con strumenti inadeguati e capziosi. Un’astrazione teorica che non può trovar riscontro nel reale: allora perché si trincerava dietro l’illusione che l’uso del proprio corpo o dell’idea si sarebbero contrapposti al sistema risultando non commerciabili e, oggi, medesimamente illudendosi d’inserire nelle increspature del sistema granelli che inceppino la macchina capitalistica perseverando medesima modalità d’astrazione e riproducendola nei luoghi di flusso della globalizzazione. Allora, non si tenne conto di come la macchina capitalistica avrebbe reso redditizie anche l’immaterialità di quelle forme segnandone la sconfitta; oggi rappresentata proprio da quei granelli previsti per l’alimentazione economica del mercato artistico, uno dei molti volti del flusso capitalistico e globalizzante. Alimentazione economica in grado di contenere al suo interno tutte le culture, ormai espresse nell’univoco vocabolo-moneta che tutti proferiamo quotidianamente nella pratica sociale all’interno dei sistemi di raccolta dell’informazione, vero volto dell’economia intangibile, che come un cappio si stringe intorno all’esistenza strangolata di qualunque forma di vita. Perpetrandosi proprio grazie alla migrazione imposta dal flusso capitalistico, che come buco nero inghiotte ogni forma d’esistenza, trascinandovi ogni cultura incenerendola e polverizzandola, attirando a sé anche le resistenze geografiche più lontane. Collocandosi al centro dell’universo esistenziale dell’intero pianeta ha dissolto il lontano. Il radicante è sua espressione, sua manifestazione non possibile foro d’uscita, perché la maglia del sistema non presenta increspature. La precarietà non è nemica della cultura perché distrugge la storia, la longevità della testimonianza, perché sgretola il senso delle cose e delle culture, ma perché è l’alimento economico per eccellenza del capitale. Più un soggetto è deperibile – sia esso umano, oggettuale o immateriale – prima è possibile immettere sul mercato il suo sostituto. È proprio questa inarrestabile e frenetica sostituzione di ogni forma che consente al capitale di inghiottire ogni manifestazione esistente che ne ingrassa il corpo economico. La precarietà estetica, come aveva già dimostrato Maltese, non impedisce la sua spendibilità economica. Dato che è questo il nodo al quale non vuole giungere la riflessione di Bourriaud. Tutte le forme estetiche che elenca sono alimento economico, stabili o precarie che siano, la produzione culturale lo è. Ogni nostro atto trascinato nel buco nero capitalistico muta in alimento economico. Anche quando non sono pensati come soggetto economico, lo divengono mutandosi in informazione, così come nel suo libro, anch’esso soggetto economico.

L’astrazione maggiore è il non riconoscimento di questo dato insovvertibile.

Il viaggio, tema centrale del pensiero altermoderno, per Bourriaud non è necessariamente fisico, è un percorso di raccolta delle informazioni di varia natura che ibridandosi, suppone, nella molteplicità creerà nuovi esseri e oggetti. Un viaggio che può essere anche condotto nella rete internet, realtà e metafora dell’altermoderno stesso e, aggiungo io, buco nero immateriale che inghiotte i dati immessi mutandoli nella materiale ricchezza delle multinazionali di Google, Facebook, ecc. Questi media, oggi divenuti interattivi, si rivelano molto più potenti e penetranti di quanto lo fossero i precedenti fruiti passivamente come la televisione. Essi sono in grado di permeare virtualmente la vita degli utenti, conducendoli a una doppia esistenza, dove a quella fisico-geografica si accompagna quella immateriale e digitale. E all’interno della quale si acuisce quella continuità tra il tempo del soggetto-lavoratore, dunque soggetto-produttore, a quella di soggetto-consumatore, dove il tempo libero e gli intrattenimenti lo immettono in una dinamica economica ininterrotta. Proprio tramite l’interazione l’utente si costituisce prodotto dei nuovi media, ai quali, attraverso il loro impiego, fornisce gratuitamente le proprie informazioni personali. Informazioni che consentono alla comunicazione di essere mirata ed efficace nella proposta dei contenuti e nel suscitare bisogni. Aspetti che non riguardano la sola comunicazione pubblicitaria, ma che annoverano le forme di comunicazione giornalistiche, politiche, sociali, culturali ed economiche. In sintesi quella che definiamo genericamente informazione e che tende a formare l’immaginario di una società.

Non è a caso che l’ultima parte del testo di Bourriaud si concentri sul dissolvimento delle varie critiche rivolte, di volta in volta, al pensiero che si pone dietro le azioni artistiche di Duchamp, dovendo riabilitare quell’atto di astrazione affinché la sua teoria non frani.

«Quando quest’ultimo elabora nel 1913 un’opera intitolata Roue de bicyclette, costituita da una ruota di bicicletta su uno sgabello, non fa altro che riportare nella sfera dell’arte il processo produttivo capitalista. Prima di tutto abbandona gli strumenti tradizionali dell’arte (il pennello, la tela), che nella produzione artistica rappresentano l’equivalente delle condizioni di lavoro pre-industriali. Con Duchamp l’arte convalida il principio generale del capitalismo moderno: non lavora più trasformando manualmente una materia inerte. L’artista diventa il primo consumatore della produzione collettiva, una forza lavoro che si connette a questo o a quel giacimento di forme: certo, è sottomesso al regime generale, ma ciononostante è libero di disporre del proprio spazio e del proprio tempo, a differenza dell’operaio, costretto a ‹collegare› la sua forza lavoro a un dispositivo di produzione esistente al di fuori di lui e sul quale non ha alcun potere».

Ecco, dunque, cosa si rivela l’intero complesso teorico che Buorriaud assegna all’artista radicante: un atteggiamento elitario di disposizione del proprio spazio e tempo. Assunto oltretutto assolutamente illusorio dato che quello spazio e tempo producono necessariamente informazione.

Quel viaggio artistico, fisico o immateriale, produce informazioni, poco importa a favore o sfavore del sistema capitalistico dato che ogni dato lo alimenta aumentandone il volume economico e del potere di controllo.

La risposta al capitale non potrebbe essere che l’interruzione del flusso: d’informazione, di consumo, di produzione; ma è percorribile?

Altrimenti si procede per ipotesi astratte, che rischiano il vezzo intellettualistico fine a se stesso. Così come evidentemente lo sono la mia e quella di Bourriaud.

Le conoscenze riguardanti le immagini – aspetto preminente dell’informazione odierna – e i loro aspetti linguistici dovrebbero pertanto essere ampiamente diffuse e appartenere ai comuni programmi scolastici.

Tanto più in un sistema di media, come quello contemporaneo, che si costituisce come eminentemente visivo: sia rispetto la natura degli stessi media che dei messaggi da essi diffusi, nonostante la presenza di un ampio analfabetismo sull’argomento. Il rischio che si corre oggi è che l’illusionismo esercitato dalle immagini leda la possibilità di scelta democratica degli individui. In assenza degli strumenti di decodifica del messaggio l’utente può soltanto subirne la trasmissione, esso è anzi tanto più potente proprio perché agisce a livello inconscio, facendo leva su aspetti cognitivi, fisiologici e culturali che appartengono a ognuno di noi.

 

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